Cosa sono gli stakeholder? Chi sono oggi gli stakeholder dei progetti di agricoltura sociale?
Per dar vita ad un progetto di agricoltura sociale non è sufficiente la volontà di una singola persona. Si tratta di realizzare e sviluppare un progetto (impresa progetto) condiviso coi diversi stakeholder e con il territorio. È siffatto progetto, con le sue ricadute sociali e ambientali, l’obiettivo imprenditoriale. In questo senso l’efficienza e l’economicità non sono il fine dell’impresa che opera in agricoltura sociale, ma costituiscono un vincolo da rispettare per fare in modo che il progetto sia sostenibile. La condivisione del progetto con gli stakeholder e con il territorio non comporta solo costi aggiuntivi (inserimenti di soggetti fragili, processi produttivi più attenti all’ambiente, ecc.) ma anche una serie di benefici. In particolare, la condivisione può permettere di ampliare la platea dei consum-attori (consumatori socialmente responsabili disponibili a premiare il progetto votandolo con il portafoglio), dei co-produttori (consumatori interessati a co-decidere i processi produttivi con gli operatori), degli utenti-partecipanti (utenti di un servizio aziendale che diventano “ortolani”, “butteri” o “addetti alle vendite”), nonché di sensibilizzare enti pubblici e soggetti privati che gestiscono mense collettive a rifornirsi presso le fattorie sociali, favorendo la creazione di mercati civili. Questa rapida disamina delle modalità di creazione di mercati civili viene articolata in cinque conversazioni distinte.
Questo approfondimento sui nuovi stakeholder dell’agricoltura sociale è la terza di tre riflessioni nate realizzando il progetto di agricoltura sociale S.E.MI – Spazi Educativi Multifunzionali in agricoltura sociale per l’innovazione dell’intervento socio-educativo territoriale
Modello competitivo collaborativo
Una delle dicotomie che la cultura occidentale si porta dietro da secoli e che crea tanti problemi alla nostra vita è quella che oppone il dono al mercato, la gratuità al doveroso, la giustizia alla carità. Le conseguenze sono gravi perché portano a considerare la gratuità come una faccenda estranea alla vita economica normale e ad “appaltare” il dono a settori per specialisti, come il “no-profit”, il volontariato o la filantropia. Il tutto è frutto di un pregiudizio. Si ritiene, infatti, che il dono non debba essere contaminato da pratiche mercantili e il mercato non debba essere indebolito e snaturato con pratiche di dono, pena il danno per entrambi i mondi. Un pregiudizio che impedisce alla giustizia di espandersi e dare i suoi frutti. Un mercato senza gratuità diventa, invero, semplice gioco speculativo e respinge la vera innovazione. Un dono che rifugge dai contratti e combatte la reciprocità tra equivalenti e il doveroso delle regole diventa il “gratis”, lo “sconto”, lo “straordinario”, il “superfluo” che presto si tramutano in “non necessario” e persino in “inutile”. Come tutti i pregiudizi, anche questo ne genera altri, tra cui la dicotomia competizione/collaborazione che in molte realtà imprenditoriali non esiste.
Un’economia civile, generativa e feconda, non può che nascere dalla varietà, dalla biodiversità, dalla multidealità, dalla promiscuità e dalle contaminazioni tra realtà diverse. Già oggi il mercato e la gratuità, da una parte, e la competizione e la collaborazione, dall’altra, sono facce della stessa buona vita comune.
Bisogna liberarsi dal pregiudizio che la contaminazione tra la sfera del dono e quella del mercato arrechi danno ad entrambe.
L’altro pregiudizio da abbandonare è che la competizione e la collaborazione siano antitetiche
Basta guardarsi intorno per notare che la gran parte delle imprese sono mosse da obiettivi diversi (sociali, relazionali, ideali, simbolici), e non solo dai profitti. E questa caratteristica non pregiudica affatto il loro essere imprese di mercato a tutti gli effetti. La loro valenza non solo “for profit” non comporta affatto che siano destinate, inesorabilmente, a soccombere nel mercato globale.
Del resto, la loro importanza economica è stata riconosciuta dapprima dalla Legge 141/2015 sull’agricoltura sociale (tra gli operatori sono innanzitutto considerate le imprese agricole “for profit”) e, successivamente, nella Legge di Stabilità 2016, la quale ha introdotto nel nostro ordinamento (art. 1, commi 376-382) le Società Benefit (SB). Si tratta di imprese in forma societaria che “nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse” (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione, società civile, comunità locali). Non è importante – in siffatta definizione – se gli azionisti dividano o meno gli utili; quello che conta è che il fine societario sia di beneficio comune e che le imprese operino in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti degli stakeholder. Una parola inglese polisemica la cui traduzione letterale nella nostra lingua (portatore d’interesse) non rende l’idea della caratteristica fondamentale dei soggetti che si vogliono descrivere. Bisogna risalire al significato originario del termine nella cultura contadina scozzese per scoprire che “stakeholder” sta per “proprietario del paletto”, quello che segna il confine del fondo o del podere. Rispondere agli stakeholder significa, dunque, tenere in conto le preoccupazioni del contadino confinante. Nel nostro podere si ha diritto a fare ciò che si vuole, ma c’è sempre un vicino che, ai confini delle nostre azioni, può nutrire delle apprensioni e sentirsi tutelato soltanto dai nostri comportamenti. In cambio egli ci restituisce consenso, fiducia, quello che fa accrescere la nostra reputazione e ci permette di vivere in armonia nella stessa comunità.
Stakeholder = proprietario del paletto = contadino confinante
Queste forme di imprenditoria civile, come appare evidente anche dal versante dell’etimo, sono il derivato di una cultura che affonda le radici nel mondo rurale, fatto prevalentemente di valori quali la reciprocità, il mutuo aiuto, la fraternità; una cultura che oggi non caratterizza solo le campagne ma permea di sé una parte significativa del nostro sistema economico. È la società civile, nella sua prevalenza, ad essere intrisa di questi valori, benché l’opinione pubblica stenti a riconoscerlo e a comunicarlo. Da qualche decennio, emerge, infatti, un nucleo di cittadini consapevoli, sempre più in crescita, che non chiede alle imprese solo di produrre ricchezza, fare prodotti di qualità a basso costo, pagare le tasse e rispettare la legge; pretende anche che esse si facciano carico di nuovi compiti volti a tener conto di preoccupazioni sociali e ambientali. Insomma, cresce il numero di quei cittadini che esigono da sé stessi più responsabilità civile e, nello stesso tempo, dalle imprese un particolare impegno nel far sì che i rapporti umani celati dentro i beni e i servizi vengano alla luce.
Se guardiamo simultaneamente questi due processi – il primo riferito all’impresa e il secondo al cittadino – ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di nuovi occhi per osservare le dinamiche economiche. In questa nuova dimensione, il mercato ci appare, infatti, come uno spazio dove realizzare una grande operazione cooperativa: più della concorrenza e dell’avidità sono la collaborazione e il “cum-petere” (che significa “crescere insieme”) le basi culturali su cui si può rigenerare il mercato contemporaneo.
Al di là del loro settore di attività e della forma giuridica adottata, il compito precipuo dell’impresa diventa sempre più quello di realizzare progetti innovativi e creare valore restando sul mercato in modo efficiente. Il tutto sta ad indicare con chiarezza che non esiste un unico modello competitivo, quello di tipo posizionale: c’è chi vince e c’è chi perde come in una gara sportiva o in una guerra. Un modello che non crea ricchezza né innovazione. Insomma, una competizione a somma zero come nel poker o in una guerra di posizione e di logoramento del nemico. Esiste anche il modello competitivo che si fonda, invece, sul mutuo vantaggio dei soggetti che partecipano allo scambio di mercato.
Molti esprimono il mutuo vantaggio come un gioco win-win (in cui tutti vincono); un’espressione poco felice perché è sempre all’interno della metafora della gara (vincere). In realtà, c’è un modo coerente di intendere il win-win, ma che non è usato da coloro che sono affezionati a questa espressione: è intendere lo scambio economico come l’azione di un team. La cultura economica prevalente usa, infatti, il concetto di team per indicare il gruppo di lavoro all’interno dell’azienda, ma non lo adotta per indicare lo scambio di mercato. Invece, questo si può benissimo rappresentare come un team, dandone una immagine più vicina alla realtà. Cos’è, infatti, il rapporto tra un venditore e un acquirente, un fornitore e un cliente, un produttore e un consumatore, un erogatore di servizi e un utente? Entrambi cooperano per raggiungere un obiettivo comune che avvantaggia entrambi. Tutti gli stakeholder di un’impresa possono essere considerati un team. E se si alimenta la fiducia tra di loro, cresce la reputazione dell’impresa.
La competizione di mercato è, dunque, un intreccio complesso di collaborazione e concorrenza. Il mercato è vita: non solo è mutuo vantaggio e reciprocità ma è mutua assistenza. Il mercato fondato sul mutuo aiuto è possibile leggerlo come un brano di vita in comune, come un momento della società civile. Ci sono oggi studi importanti che dimostrano come i Paesi, le culture, che vedono il mercato come un “gioco a somma zero” crescano meno e male rispetto a quelle culture dove il mercato è inteso come creatore di ricchezza per tutti i soggetti coinvolti nello scambio. Il mercato dipende anche dal nostro modo di immaginarcelo, dalla nostra cultura e, dunque, da cosa vogliamo farlo diventare.
Consum-attore, co-produttore e utente-partecipante
Siamo nel vivo di un passaggio epocale da una società caratterizzata dalla produzione di massa e dall’uniformità dei comportamenti nei consumi ad una società in cui gli individui non sono più consumatori o utenti passivi nello scambio di beni e servizi, ma diventano protagonisti attivi, capaci di superare le asimmetrie informative mediante l’uso delle tecnologie digitali. Vogliono essere partecipi del progetto con cui si crea il processo produttivo, il prodotto, l’erogazione del servizio e non semplicemente spettatori nel teatro del marketing.
Non ci distinguiamo più per classi sociali e per appartenenze partitiche ma sempre più per stili di vita e visioni del mondo diverse da quelle esistenti nel Novecento. Badiamo meno al tenore di vita e più alla qualità della vita. Il consumo da semplice atto d’acquisto si trasforma in azione sociale, da mera funzione strumentale si tramuta in creazione di valore. Nei percorsi di co-apprendimento, necessari per analizzare il diverso approccio alle relazioni tra produzione e consumo, abbiamo coniato neologismi come “consum-attore”, “co-produttore”, “utente-partecipante”, e dismesso tutto il glossario “militarista” della competitività di posizionamento: “strategia”, “conquista”, “target”, “perdita”, “avanzamento”, “arretramento”.
Non tutto sembra andare nel verso giusto. L’idea di marketing evolve, ad esempio, verso quella di “socialing”: un neologismo, dal significato alquanto fumoso, con cui si pretende di interpretare i cambiamenti avvenuti nella domanda di beni e servizi, a seguito dei livelli più alti di istruzione e della rivoluzione digitale. Cambiamenti reali che si erano già messi in moto negli anni Settanta vengono con enorme ritardo interpretati, mitizzandoli e semplificandoli per utilizzarli, strumentalmente, nell’attività di comunicazione.
Nel contempo, abbiamo recuperato significati dell’atto di consumare che non adoperavamo più. La parola “consumare” non significa solo distruggere, non richiama solo l’idea dello spreco. Tale accezione rinvia ad un’immagine prettamente materiale del consumo. Ma oggi assume importanza l’immaterialità insita nel bene o nel servizio. E una pluralità di esperienze di consumo enfatizza così un nuovo modo di possedere in un’accezione più ricca del semplice logoramento. Si parla sempre più di consumo critico, responsabile, riflessivo. Anche l’idea di consumo di suolo va ripensata perché il territorio va continuamente adattato ricercando nuovi equilibri. Si torna, in un certo senso, a modi di essere e di pensare precipui della cultura rurale, che accompagnavano l’appropriazione e la consumazione di un bene con riti conviviali e consuetudini sociali atte a garantirne anche la riproducibilità. Consumare e fruire sono tornati ad essere sinonimi e a legarsi indissolubilmente con l’atto del produrre e del creare valore. Mangiando in modo consapevole vogliamo conoscere tutto del cibo, vogliamo entrare in rapporto con il produttore e vogliamo essere associati anche noi all’atto del produrre. E il produttore ci permette di andare nel campo a raccoglierci la frutta e i prodotti freschi da acquistare. “Pick-your-own” chiamano gli americani questa forma di scambio. Con l’assistenza di un esperto, acquistiamo “vino su misura”, scegliendo le tipologie di uva direttamente dal vigneto e selezionando personalmente la miscela preferita di gusto. Diventiamo, in tal modo, co-produttori del vino che mettiamo a tavola. Servirci di un orto o di un maneggio per sentirci meglio fa sì che non ci consideriamo semplicemente utenti ma partecipanti all’attività, diventando “ortolani” o “butteri”.
Forse andrebbe riesumato il termine “cliente” nell’indicare chi partecipa da protagonista alle attività culturali, educative, sociali e socio-sanitarie organizzate in un contesto produttivo. Noi oggi abbiamo qualche remora a utilizzare questa parola perché nel tempo è diventata polisemica. Ma il termine “cliente” viene da una comune radice indoeuropea, śru, che ha assunto in sanscrito la forma verbale śru, in greco kly e in latino clu. La radice indoeuropea śru fu composta da ś+ru, che in origine significava “stare vicino [ś] ad un rumore [ru]”, da cui “ascoltare”. Il significato originario di queste radici è, dunque, “ascoltare”, “sentire”. Nel verbo sanscrito śru e in quello greco klỳō tale significato rimase. In greco, nel senso invece di “aver ascoltato”, e “di ciò che si sente nominare e vantare”, la radice si sviluppa in klèō, “celebrare”, “glorificare”, cui corrisponde il verbo latino clueo, -ere “sentir parlare di”, “essere celebre”, “chiamarsi”, “essere detto”, “essere stimato”. Dopo Seneca, clueo si attesta anche nella forma cluo. Dal participio presente cluens, -entis nasce il sostantivo cliens, -entis che significa “chi, in Roma, si mette alle dipendenze di un potente (patrono)” oppure figuratamente “seguace”. In italiano, il sostantivo “cliente” assume il significato di “chi acquista un bene o un servizio presso un esercizio o un’azienda”, “chi si vale abitualmente dell’opera d’un professionista”, “chi si rifornisce di solito dal medesimo negoziante”. Dal termine “cliente” derivano la parola “clientela”, che significa “complesso dei clienti di un professionista o di un negoziante”, e l’aggettivo “clientelare” che significa “della clientela”. Dal termine “clientela” deriva poi il sostantivo “clientelismo” nel significato di “sistema di rapporti tra persone fondato su favoritismi e benefici personali che si instaura, specialmente in ambito politico, tra cittadini e personaggi influenti al fine di ottenere reciproci vantaggi”. L’uso del termine “clientelismo” ha a sua volta influenzato i significati di “clientela” e “clientelare”. E così “clientela” è usato anche come sinonimo di “clientelismo” e “clientelare” come aggettivo attinente a “clientelismo”.
Questa lunga disamina dei percorsi semantici del termine “cliente” permette di distinguere il percorso che vede un libero cittadino associarsi per motivi d’interesse o stabilire un rapporto di dipendenza con un patrono, dal percorso che vede invece una persona porsi in una relazione abituale e paritaria con un’altra persona per creare le condizioni di un eventuale scambio di un bene o di un servizio. È quest’ultimo percorso che riconduce il significato della parola “cliente” alla radice indoeuropea, śru, “ascoltare”. In tale accezione, il cliente è chi si pone in ascolto e, nello stesso tempo, viene ascoltato. Ha una funzione potenzialmente attiva e paritaria. E anche la relazione d’aiuto, nel caso del cliente di un servizio culturale, educativo, sociale e socio-sanitario, può essere creata nella reciprocità e pari responsabilità. Nelle “care farms” olandesi il partecipante è chiamato, senza alcun imbarazzo, “cliente”. E questo forse perché, nelle culture anglosassoni, il significato del termine si è discostato meno dalla sua antica radice indoeuropea.
Si può, dunque, dire che produrre, metterci in ascolto reciproco e consumare non costituiscono più azioni separate, lontane tra di loro, ma sempre più verranno a comporre fasi consequenziali di un unico atto con cui definiamo ed esprimiamo la nostra identità, costruiamo la nostra vita quotidiana, entriamo in relazione con altri individui.
Abitando i social, ci trasformiamo da individui anonimi in persone con una immagine, una storia, aspirazioni, pensieri e atteggiamenti propri; e, come persone, chiediamo sempre più un dialogo. Come in ogni epoca, la società cambia e apre voragini che inquietano per lo stato di incertezza in cui sprofondiamo, ma le occasioni di riscatto restano altrettanto vive. Se da un lato la cyber propaganda può agire indisturbata contro il nostro volere, la conquista degli “algoritmi di libertà” non sembra più essere un’ipotesi azzardata e inverosimile.
Vogliono essere partecipi del progetto con cui si crea il processo produttivo, il prodotto, l’erogazione del servizio e non semplicemente spettatori nel teatro del marketing
Consumare, fruire e produrre sono tornati a legarsi indissolubilmente in atti che creano valore, attraverso i quali definiamo ed esprimiamo la nostra identità, costruiamo la nostra vita e ci relazioniamo con gli altri
Quando incomincia questa “rivoluzione”? È Corrado Barberis (decano della sociologia rurale in Italia) il primo ad accorgersi già a metà anni Settanta, che, in un mondo dominato dai consumi di massa e dall’apertura ai mercati internazionali, accanto alla tradizionale agricoltura da sostentamento che si traduce in calorie, proteine, vitamine a prezzi sempre più stracciati, si sviluppa spontaneamente un’agricoltura da divertimento basata sui cibi ad alto contenuto di piacere e sull’accoglienza in antichi casali ristrutturati, in concorrenza con cinema, concerti e discoteche come modo di passare una serata brillante o un weekend rilassante.
Le tradizioni alimentari locali vanno così assumendo diverso valore dietetico, simbolico e rituale e portano con sé una trasformazione del gusto che – per essere arricchente – dovrebbe avvenire in modo consapevole con il coinvolgimento delle comunità interessate e non sulla loro testa. Un “gusto riflessivo”, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Anthony Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea. Un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano.
Un gusto rivolto al futuro in grado di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili.
La filiera corta e la creazione di mercati civili locali e globali
Con l’espressione “filiera corta” si è finora identificato un ampio insieme di configurazioni di produzione-distribuzione-consumo, come la vendita diretta in azienda, i mercati agricoli di vendita, le varie forme di gruppi di acquisto, la fornitura di mense collettive. Prima che il pasticciere francese Nicolas Appert sperimentasse alla fine del Settecento la conservazione dei cibi riponendoli in appositi barattoli di vetro e chiudendoli ermeticamente con dei coperchi di metallo, la filiera corta era la modalità principale della circolazione dei cibi, in quanto questa avveniva prevalentemente in un ristretto ambito territoriale. L’assenza di conoscenze e di mezzi tecnici idonei ad evitare la putrefazione delle carni fresche e del pesce è stata in parte compensata in passato da metodi di conservazione, nel tempo sempre più affinati, legati alla salatura, all’essiccazione e all’utilizzo di spezie. E tali metodi hanno permesso ai nostri antenati di scambiare prodotti alimentari anche tra le diverse aree del mondo. Ma il cibo che si consumava proveniva prevalentemente dalle agricolture locali. Successivamente, nei Paesi avanzati, lo sviluppo dell’industria alimentare e della distribuzione organizzata ha sempre più reso marginale la filiera corta. Con la globalizzazione, la nuova rivoluzione tecnologica e le nuove sensibilità che si manifestano dagli anni Settanta in poi, la filiera corta torna in auge e viene reinventata nelle forme attuali.
Finora, gli studiosi e gli osservatori hanno associato l’idea di filiera corta a quella di “prossimità fisica” che misura la distanza fisica tra produttori e consumatori; di “prossimità sociale” che suggerisce un rapporto di comunicazione tra produttore e consumatore in grado di generare una condivisione di saperi e di valori; di “prossimità economica” che prende in considerazione la circolazione del valore all’interno di una comunità o di un territorio. Ma non si è tenuto conto di un’altra associazione che nella realtà è molto diffusa: quella tra “prossimità” e “intimità della relazione”, tra “prossimità” e “atteggiamento di cura”, cioè qualcosa che attiene alla qualità delle relazioni e delle collaborazioni tra i diversi soggetti. “Prossimo” è chiunque assista l’altro indipendentemente dalla distanza geografica o dall’affinità familiare o etnica. Dimodoché tutte le relazioni o collaborazioni fondate sul mutuo aiuto sono prossime e, in quanto tali, contribuiscono a promuovere la giustizia e l’equità. Si accorcia una filiera non solo riducendo le distanze ed eliminando gli intermediari, ma soprattutto personalizzando e incivilendo le relazioni, trasformandole in atti cooperativi. Ed oggi, la globalizzazione e il salto tecnologico legato al digitale ci permettono di allargare l’applicazione della filiera corta, così intesa, ad ambiti nuovi e inesplorati.
La filiera corta non è solo riduzione della distanza fisica ed eliminazione degli intermediari tra produttore e consumatore, ma soprattutto personalizzazione e incivilimento dello scambio economico, che, in tal modo, si trasforma in atto collaborativo
Con la Programmazione dello Sviluppo Rurale 2014-2020 le politiche pubbliche si sono maggiormente adeguate ai cambiamenti in atto, superando un’interpretazione riduzionista della multifunzionalità dell’agricoltura presente nei precedenti cicli di Programmazione. Negli anni scorsi la nuova ruralità veniva vista dalle politiche essenzialmente come espressione di una sorta di dualismo: da una parte l’agricoltura “competitiva” che “starebbe sul mercato” e, dall’altra, l’agricoltura “multifunzionale” che “non avrebbe nulla a che fare con la competitività”. L’idea era che la “multifunzionalità” e, in essa, la “filiera corta” si configurassero come esempi di resistenza degli agricoltori alla modernizzazione e alla globalizzazione dei sistemi agroalimentari. Un’agricoltura “altra”, dunque, da sostenere in modo distinto e separato da quelle definite in gergo “agricolture convenzionali”. Ora la “filiera corta” viene definita dal Regolamento UE sullo Sviluppo Rurale (n. 1305/2013) come “filiera di approvvigionamento formata da un numero limitato di operatori economici che s’impegnano a promuovere la cooperazione, lo sviluppo economico locale e stretti rapporti socio-territoriali tra produttori, trasformatori e consumatori”. È, dunque, intesa come una delle leve per la competitività delle imprese e lo sviluppo locale e come uno degli strumenti capaci di costruire valore e significato e di generare trasformazione sociale ed economica. Tra le modalità di realizzazione della “filiera corta” è previsto il sostegno (Misura 16 – Cooperazione) alle azioni di animazione e progettazione. E nella stessa Misura c’è il sostegno alle reti locali per l’agricoltura sociale, alle filiere agroenergetiche e ai gruppi operativi per l’innovazione.
Nei Programmi di Sviluppo Rurale 2014-2020 la filiera corta è considerata una delle leve per la competitività delle imprese e lo sviluppo locale e come uno degli strumenti capaci di creare valore e significato e di generare trasformazione sociale ed economica
Per creare mercati civili ci sono, dunque, supporti giuridici, tecnici e finanziari di non poco conto. Si tratta, infatti, di promuovere percorsi di autoapprendimento collettivo che coinvolgano produttori e cittadini per renderli protagonisti nella costruzione delle “filiere corte”, mediante l’animazione territoriale, nonché la sensibilizzazione e la crescita culturale. Occorre farlo sempre con dinamicità e in modo innovativo, soprattutto ora che, nei Paesi emergenti, entrano in scena milioni di cittadini che stanno modificando la propria dieta alimentare ed esprimono bisogni sociali nuovi e differenziati. Le tecnologie digitali oggi fanno miracoli nel permettere la costruzione di relazioni “intime” tra imprese e territori di regioni e Paesi anche molto lontani e cogliere meglio le opportunità della globalizzazione.
Stanno nascendo servizi – gestiti da giovani agricoltori – per facilitare l’incontro “intimo”, lo scambio culturale, prima ancora che economico, tra chi produce un alimento e chi lo acquista. Con un’applicazione digitale e il relativo sito web si agevolano i contatti e le relazioni tra i cittadini e le aziende agricole che intendono aderire al progetto.
L’art. 4 della Legge 141/2015 offre la possibilità di costituire organizzazioni di produttori per prodotti dell’agricoltura sociale. Si tratta di strumenti che hanno come scopo principale la commercializzazione della produzione delle aziende agricole aderenti per la quale sono riconosciute. Possono essere destinatarie di misure pubbliche, stabilite dalle istituzioni comunitarie, nazionali e regionali, che incoraggiano le loro attività. È importante chiarire che non c’è contraddizione tra questo strumento giuridico e la realizzazione di “filiere corte”. Entrambe le forme possono coesistere per mettere radici nei territori e allungare i rami verso il mondo.
Per evitare sia i rischi di omologazione (in una ruralità stereotipata legata prevalentemente ai prodotti tipici e ad un turismo “mordi e fuggi”) che la deriva delle chiusure identitarie (spesso con rigurgiti neo-protezionistici e autarchici), le comunità-territori del Mediterraneo devono acquisire la capacità di autorappresentarsi e costruire la propria immagine. La storia di queste comunità-territori ci racconta, del resto, di una campagna che nasce dalle città, di una capacità di integrare culture diverse e di combinare continuamente attività in più settori e soggetti sociali di diversa estrazione e provenienza, legati tra loro da relazioni di tipo collaborativo.
Si tratta di esaltare la diversità e il pluralismo, ricercando le sinergie e le complementarità, ma partendo da una forte capacità delle comunità-territorio di avere una chiara percezione di sé per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntate ad una relazionalità collaborativa. Le arti e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono alimentare la capacità delle reti locali di costruire in modo creativo la propria immagine e di riscoprire in modo permanente il “Genius loci” come processo culturale di autocoscienza e di apertura agli altri.
La vendita diretta (in azienda e nel mercato agricolo di vendita)
In base alla nuova definizione di “imprenditore agricolo” che l’art. 1 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, ha introdotto nel nostro codice civile (art. 2135), rientrano tra le attività agricole – accanto alla coltivazione del fondo e del bosco, all’allevamento di animali e ad altre – anche le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti. Queste attività sono considerate connesse all’attività agricola principale quando rispondono a due requisiti: uno soggettivo e l’altro oggettivo. Il requisito soggettivo consiste nel fatto che l’imprenditore che svolge le attività connesse sia lo stesso soggetto che esercita una o più attività agricole principali, cioè la coltivazione del fondo o del bosco, oppure l’allevamento di animali. Il requisito oggettivo consiste, invece, nel fatto che i prodotti coinvolti in tali attività provengano prevalentemente dall’attività di coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento esercitata dal medesimo imprenditore agricolo.
Il cesto delle produzioni di una fattoria si diversifica, dunque, in prodotti che vanno dal pane al vino, dall’olio al miele, dalle marmellate ai formaggi e il ventaglio delle attività viene a ricomprendere la vendita diretta, la partecipazione ai mercati agricoli di vendita nei centri abitati, l’inserimento nei circuiti della ristorazione collettiva. Sicché troviamo prodotti “firmati” dagli imprenditori agricoli nelle mense delle aziende e delle scuole, in ospedale e al ristorante, nel frigo della camera di albergo, nei bar e nel catering.
La vendita diretta in azienda non è una novità. Già una norma del 1929 aveva permesso la vendita del vino effettuata direttamente nell’azienda agricola. E successivamente, la legge sul commercio n.59/1963 aveva escluso dall’obbligo di munirsi di licenza i produttori agricoli “per la vendita al dettaglio dei prodotti ottenuti nei rispettivi fondi per coltura o allevamento”. Mentre in passato tale previsione rispondeva esclusivamente alle necessità dell’agricoltore di allocare al meglio i propri prodotti, con l’esplodere della nuova ruralità si è ricoperta di ulteriori significati socio-economici e culturali. L’idea che informa le nuove norme è di favorire una conoscenza diretta del produttore e del consumatore, uno scambio di saperi e di esperienze, un amalgama di dono e mercato. Si è introdotto anche il criterio della prevalenza dei prodotti provenienti dall’azienda dell’imprenditore. Con l’art. 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, come modificato e integrato successivamente, si stabilisce, infatti, che “gli imprenditori agricoli, singoli o associati, o gli enti e le associazioni che intendano vendere direttamente prodotti agricoli o prodotti derivati, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”. La “Nota di indirizzi” dell’ANCI del 25 ottobre 2005 chiarisce ai Comuni che vi è prevalenza sulla base di un confronto in termini quantitativi tra i prodotti ottenuti dall’attività agricola principale ed i prodotti acquistati da terzi, confronto che potrà effettuarsi solo se riguarda beni appartenenti allo stesso comparto agronomico. Ove sia necessario confrontare prodotti appartenenti a comparti diversi, la condizione della prevalenza andrà verificata in termini valoristici, ossia confrontando il valore normale dei prodotti agricoli ottenuti dall’attività agricola principale e il valore dei prodotti acquistati da terzi. È, dunque, il criterio della prevalenza a definire il limite entro il quale continua ad applicarsi lo statuto dell’impresa agricola, ad attività altrimenti ricadenti sotto il regime giuridico dell’impresa commerciale. Un eccesso di zelo “corporativo” che il legislatore poteva risparmiarsi. Non è, infatti, importante se nel punto vendita aziendale l’agricoltore espone i prodotti di cui lui personalmente ha curato il processo produttivo o quelli realizzati nell’azienda del vicino; quello che conta è l’”intimità” della relazione tra l’agricoltore e il consumatore, lo scambio vicendevole di saperi esperienziali, la contaminazione interculturale che si realizza e, soprattutto, il reciproco aiuto che sostanzia lo scambio economico. Qui sta l’innovazione sociale che fa di un mero scambio economico uno scambio di prossimità.
La vendita diretta in azienda non è un mero scambio economico ma uno scambio di prossimità: conta l’”intimità” della relazione tra l’agricoltore e il consumatore, il trasmettersi vicendevolmente saperi esperienziali, la contaminazione interculturale che si realizza e, soprattutto, il reciproco aiuto che si realizza
Anche i mercati agricoli di vendita sono un’opportunità da tempo disciplinata dal nostro ordinamento. Si tratta di una modalità di vendita che l’agricoltore può praticare senza che si frapponga un intermediario tra lui e il consumatore e senza che lui stesso debba cambiare mestiere, diventando di fatto un commerciante. È una modalità che può conservare la stessa valenza culturale della vendita diretta in azienda a patto che il mercato sia organizzato in modo tale da non offuscare o intralciare in alcun modo il rapporto diretto, personale e fiduciario tra il singolo produttore e il cittadino acquirente. Più del valore del cibo in sé, è questa relazione interpersonale che più conta e va salvaguardata. Con essa il mercato “muto” e “anonimo” che caratterizza la grande distribuzione recupera l’interattività personalizzata tra soggetti che nello scambio economico si danno reciproco aiuto. Tale modalità di vendita si regge sul principio di reputazione. Quest’ultima è alimentata dalla fiducia che si stabilisce all’interno del team del progetto e, dunque, tra tutti gli stakeholder. La relazione produttore agricolo/consum-attore deve pertanto essere genuina, cioè riconosciuta da tutti. “Genuinus” era il figlio che il padre riconosceva prendendolo sulle ginocchia (“genu”). Se diventa una forma d’imitazione della relazione – e questo avviene quando il rapporto è oscurato e, di fatto, sostituito dalla relazione tra il gestore del mercato (con il suo logo, i colori delle sue bandiere, i suoi messaggi e i suoi interessi) e i visitatori-acquirenti – alla lunga la reputazione da buona può diventare cattiva. E l’inautenticità della relazione, la sua contraffazione renderà inefficace la medesima modalità di vendita.
Il decreto del ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali del 20 novembre 2007 contiene le linee di indirizzo per la realizzazione dei mercati riservati all’esercizio della vendita diretta da parte degli imprenditori agricoli affinché possano essere soddisfatte, tra l’altro, le esigenze dei consumatori in ordine all’acquisto di prodotti agricoli che abbiano un diretto legame con il territorio di produzione. L’impulso per la costituzione del mercato agricolo di vendita può provenire dai comuni, anche consorziati o associati, oppure da una richiesta degli imprenditori agricoli singoli, associati o dell’associazione di produttori e di categoria, presentata ai comuni.
L’organizzazione del mercato agricolo di vendita, per essere efficace, non deve in alcun modo offuscare o intralciare la relazione diretta, personale e fiduciaria tra il singolo produttore e il cittadino acquirente; una relazione che deve rimanere genuina, cioè riconosciuta e riconoscibile da tutti
L’articolo 30-bis del Decreto Legge 21 giugno 2013, n. 69, ha introdotto un’importante semplificazione negli adempimenti burocratici: “Per la vendita al dettaglio esercitata su superfici all’aperto nell’ambito dell’azienda agricola, nonché per la vendita esercitata in occasione di sagre, fiere, manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico o di promozione dei prodotti tipici o locali, non è richiesta la comunicazione di inizio attività”. Infine, l’art. 6, comma 2, della Legge n. 141/2015 ha stabilito che i comuni definiscono idonee modalità di presenza e di valorizzazione dei prodotti provenienti dall’agricoltura sociale nelle aree pubbliche destinate al commercio.
I gruppi di acquisto solidale (GAS) e le altre reti di stakeholder
La progettazione in agricoltura sociale deve prevedere non solo l’organizzazione dell’offerta di beni e servizi ma anche la strutturazione della domanda per garantire all’iniziativa la sua sostenibilità economica.
Mercati civili dell’agricoltura sociale:
- gruppi di acquisto solidale (GAS)
- gruppi interessati all’utilizzo solidale dei servizi alla persona
- gruppi che aspirano a fruire di orti urbani
- gruppi di proprietari di piccoli appezzamenti di terra che hanno la necessità di fruire di servizi
- stipula di accordi quadro con istituzioni pubbliche e private per rifornire mense collettive
L’articolo 1, comma 266, della Legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)”, definisce i GAS come “soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti, con finalità etiche, di solidarietà e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e vendita”. Le leggi regionali hanno poi ampliato il quadro normativo allo scopo di incrementare, attraverso il sostegno dei GAS, la vendita diretta dei prodotti di qualità.
Le attività dei GAS non hanno natura commerciale ai fini del regime IVA e imposte dirette
Si tratta di una modalità che nelle grandi aree urbane e metropolitane è in continua crescita. Potrebbe essere una forma di mercato da adattare anche ai centri abitati delle aree rurali integrandola con forme di co-produzione. Alla stregua dei GAS, altri gruppi possono essere promossi per diventare soggetti protagonisti della co-progettazione – con le fattorie sociali – di servizi educativi, sociali e socio-sanitari. In tali percorsi di co-progettazione e ibridazione tra diversi soggetti possono nascere esperienze inedite di agricoltura sociale.
Gruppi interessati a co-progettare con le fattorie sociali servizi educativi, sociali e socio-sanitari:
- reti di scuole o di servizi sociali e socio-sanitari in ambiti pubblici
- istituti penitenziari
- centri anziani
- associazioni di familiari di persone con disabilità
- centri di volontariato
- comunità parrocchiali
- reti di condomini di strada
Un vasto campo d’iniziativa delle fattorie sociali può diventare l’erogazione di servizi tecnici e organizzativi ai proprietari di piccoli appezzamenti di terra che svolgono attività agricola prevalentemente a fini di autoconsumo. Nello stesso tempo, potrebbero organizzare il servizio orti sociali per quei cittadini che non hanno terreni e vorrebbero fare un’esperienza di coltivazione. E tale servizio potrebbe essere erogato sia nella fattoria sociale che nei “fazzoletti di terra” dei proprietari a cui si prestano i servizi tecnici e organizzativi per i loro appezzamenti. Sono già alcune decine i comuni e le altre amministrazioni pubbliche che hanno emanato i regolamenti per gli orti urbani in aree pubbliche e collettive e c’è un pullulare di tavoli di confronto in altrettante amministrazioni su questa materia. Manca, tuttavia, una visione d’insieme e, soprattutto, non c’è un approfondimento sulle forme di gestione di beni che appartengono alle popolazioni e non dovrebbero quindi essere privatizzati nemmeno nella forma dell’assegnazione ad associazioni private non lucrative. Alcuni comuni hanno allo studio progetti di utilizzazione di terreni comunali da affidare a cooperative di comunità o a fondazioni di partecipazione per fare in modo che il protagonismo delle comunità locali abbia una platea la più ampia possibile. Visioni stataliste e burocratiche frenano ancora la ricerca di forme di gestione comunitarie che possano ispirarsi alla tradizione dei demani civici e delle proprietà collettive e, dunque, a forme di reale coinvolgimento dell’insieme dei cittadini di un determinato territorio.
Altre forme di servizi alle comunità stanno nascendo mediante la costituzione di Reti di imprese.
Per chiudere la disamina delle opportunità nella creazione di mercati civili dell’agricoltura sociale, va ricordata la norma della Legge n. 141/2015 (art. 6, comma 1) che introduce nelle gare concernenti i servizi di fornitura alle mense scolastiche e ospedaliere, gestite dalle istituzioni pubbliche, la definizione di criteri di priorità per l’inserimento di prodotti dell’agricoltura sociale.